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Atopos

Joined 30 October 2008

Foz do Iguaçu / in italiano

La Garganta do Diabo si raggiunge dopo due chilometri di rampe, tutti o quasi sull’acqua. Gli uccelli pescatori stendono le ali mentre aspettano di tuffarsi dalla roccia in mezzo al fiume. Quando arrivi alla prima cascata ti sembra di non averne mai vista una. Anzi, non ne hai mai vista una davvero. Il rumore accompagna i tuoi passi nel raggio di ore e ore di cammino. Dietro ogni albero si vede il bianco dell’acqua rinascere aria. L’isola al centro è verde, le formiche sono grosse come dita umane, le farfalle come facce. L’australiano Jeremy è venuto da me quando ancora mi stavo guardando intorno, nello splendido ostello dalla natura rigogliosa, luogo sognato e finalmente presente sotto il sole. Andiamo insieme a prendere il bus verso le cascate, in mezzo alla prateria disseminata di animali e alberi. Sulla strada principale, aspettiamo un altro autobus, e nel frattempo porto Jeremy da un gruppetto poco affidabile a comprare dei cocchi più grandi dei contenitori per l’immondizia. Entusiasta, inizia a sentirsi a suo agio e sorride mentre un capellone tatuato si avvicina alla mia macchina fotografica. “Grazie dei cocchi eh? Shall we go, Jeremy?”Gli altri ospiti dell’ostello, assetati, iniziano a ventilare la possibilità di comprare dei cocchi, e nel frattempo arriva il pullman. Il francese Laurent e la sua amica brasiliana Gisele, entrambi residenti a Londra, si aggregano subito a noi, e tra lingue diverse ci inoltriamo nel panorama più fitto, mentre scimmie e tapiri scappano alla vista del rumoroso pullman che ci porta nel parco. Sento il rumore, e poi scorgo in lontananza una macchia bianca, oltre gli alberi. “Porca Vacca!”, esclamo, in onore allo scopritore europeo delle cascate, tale Alvaro Nunez Cabeza de Vaca, naufragato in Florida, e viandante a piedi fino in Paraguay! Senza fiato corriamo giù per il sentiero, e un orizzonte di cascate riempie il sentire. Emozionato, rimango a bocca aperta per lunghi minuti, bagnandomi d’acqua e sole.Le parole si rifiuteranno di mettersi in fila, ognuna spingerà, vorrò parlare di come io, Laurent, Gisele e Kathryn, abbiamo superato la frontiera del Paraguay tra moto impazzite: centinaia e centinaia di moto, di gente con scatole sulla testa. Vecchi grassi e sudati contare banconote consunte su tavolini di legno scortati da uomini cupi e armati. Evitare gli sguardi meravigliati, con la gioia soffocante di poter passare inosservato in quella folla animata in ogni direzione. Il ponte da attraversare sul fiume che divide Brasile da Paraguay è lungo sotto il sole, rumoroso e lucente. Per la prima volta mi sento tremendamente straniero, davanti alla terra rossa, su cui spuntano bancarelle, burroni. Pistole da far west, negozi che chiudono alle 17 e aprono alle 6. Ho avuto paura per lo zaino verde Monviso di Francesca, desiderando andare oltre. “Io lascerei quello zaino da qualche parte, fossi in te!”, mi ammonisce con disinteresse il poliziotto alla frontiera. Le ultime baracche che presidiano la strada brasiliana sono magazzini portavalori, scortati da facce scure e beffarde, con gli occhi socchiusi. Tutti sono appoggiati ai mototaxi, o portando cartoni e sacchi di tela camminano senza girarsi. Andiamo avanti, e con lo sguardo perso nella luce davanti supero i tendoni sulla strada di terra fino a quando sento una moto frenare davanti ai miei piedi. Senza dir nulla, il tassista senza casco riparte, nella direzione che stavo guardando.Mai ho tanto voluto andare oltre, mai ho avuto tanta paura di fronte a un mondo estraneo. La confusione, l’enorme felicità di essere al centro del Sud America, con l’indicibile tristezza di non poter continuare quella strada inaudita, rimbombano nel mio ricordo. Spesso quella strada ritorna ai miei occhi, rossa e calda, unica via dal Brasile al Paraguay, rifugio di nazisti e dittatori, contrabbandieri e giovani stufi dell’occidente.A una manciata di chilometri da lì, sorge la più grande centrale idroelettrica del mondo, Itaipu, comproprietà Brasiliana e Paranaguense. Per costruirla, una serie di cascate della portata venti volte maggiore di Foz do Iguaçu è stata spianata, in nome del progresso economico. Negli ultimi quindici anni, la cittadina che prima aveva 30000 abitanti ora ne ha 200000, grazie al consorzio italo-americano che in mezzo a un paradiso naturale ha costruito una sorgente di denaro liquido. Il ciclopico getto d’acqua costante che esce dalla centrale è l’orgoglio dei due paesi confinanti, e spesso nemici.Ma come immaginare la terra verde che nasce dalle cascate, l’infinito percorso tra ragni e iguane, rami e rumore. Quel suono continuo e bianco, confusa approssimazione dell’universo. E l’acqua che sotto i piedi cade incessante, tra le nuvole bianche. I falchi che in picchiata aiutano i miei occhi a guardare oltre, a sentire quel luogo presente giorno e notte. Come si può costruire una città normale vicina ad un luogo così? Come si può pensare ad altro, quando in silenzio si potrebbe ascoltare quel suono? Come è possibile distruggere tutto questo? Con la pacifica collaborazione di due popoli, nell’interesse di entrambi, e del consorzio italo-americano.La parte argentina delle cascate permette di perdersi nell’infinito meandro di sentieri, tra pappagalli nell’ombra della foresta. Mi allontano dagli altri per non dover ascoltare le stesse parole che io stesso non riesco a pensare se non a voce alta. E allora smetto di pensare, e in silenzio seguo i percorsi meno battuti, con gli occhi salati e il sorriso stampato sulla faccia scottata. Il sacro terrore di ciò che non ha forma e dimensione umana mi anestetizza a ogni forma di volere. Solo rimango esterrefatto sull’orlo del precipizio, al sicuro sopra una fila assordante di cascate, finalmente un progresso utile a far parte del mondo. Salgo sul gommone che mi porta davanti alle cascate più grandi, l’acqua va in tutte le direzioni, gelida, e mi ricordo di gesuiti che 400 anni fa scoprirono questo luogo, allora cimitero del popolo guaranì, gli unici indios cristianizzati. Per cento anni, nel sud del Brasile, cristiani e pagani vissero nelle stesse fazende, in quella che forse può essere chiamata una società comunista, se la storia non prendesse altri corsi. Di sicuro in Spagna quella sembrava una sfida al potere e all’autorità, ovvero un altro potere e un’altra autorità, e gesuiti e indios furono massacrati in nome del Signore.Fradicio ed eccitato, inizio a prendere le strade più assolate, e mi forzo lentamente verso l’ingresso del parco dove ci sarà un pullman ad aspettarci. Arrivo in ritardo, sperando che il gruppo sia già partito, o che almeno io sia l’ultimo, in modo da far sentire in colpa tutti coloro non abbiano goduto fino in fondo lo spettacolo. Il parco è ormai deserto, e incute quasi paura, solo qualche venditore indio rimane per terra con i suoi giocattoli colorati, tra maglie e souvenir di legno. Il pulmino giallo è già acceso, ma non sono l’ultimo ad arrivare: mancano proprio gli unici con i quali avessi fatto amicizia. Mi immagino il biondo Jeremy fare l’ironico marpione con la bella Gisele, amica di un Laurent bucolico ed entusiasta. Li aspetto seduto per terra, mentre il conducente si innervosisce: “Vado a cercarli io!”, grido, “Se non torno tra cinque minuti partite pure senza di noi!” Torno dentro al parco, felice di non avere più orari da rispettare, e già mi godo l’aria pura del prossimo tramonto. Incontro gli altri uniti e stanchi, e un po’ invidioso rimprovero loro il ritardo, informandoli che ci sarà da trovare un altro mezzo che ci riporti in Brasile. Tra tutte le facce da turisti incontrate alle cascate, tra le famiglie e le coppiette, soltanto un viso mi ha colpito all’istante. Ricordo con emozione il saluto tacito e profondo scambiato con un sorriso, mentre lui usciva dal parco e io rientravo alla ricerca dei ritardatari. La stessa faccia mi ritrovo alla fermata dell’autobus semideserta, all’orario di chiusura, quando tutti insieme aspettiamo il mezzo per Puerto Iguazù, cittadina argentina poco distante. Alex, spagnolo e viaggiatore, dopo Italia e India, Paraguay e Argentina si aggrega a noi con la facilità dell’entusiasmo, dimenticando la possibile solitudine senza il nostro incontro. L’euforia di viaggiatori solitari diventa solidarietà.Di ritorno oltre frontiera faccio aspettare l’autobus per cinque minuti, quando cantando corro alla dogana per prendere nove pesos dovuti grazie a un acquisto duty free. Lasciato un bottiglione di birra al centro della frontiera, al poliziotto che mi guarda stupito grido gesticolando la mia allegria: “Non ora, mi spiace, sono di corsa!” Compriamo una bottiglia di vino argentino, e quando arriviamo a Foz de Iguaçu andiamo a cena in un ristorante chiamato San Francesco d’Assisi chiedendo di poter bere il vino appena comprato. “Guarda sul passaporto”, dico quasi abbracciando il proprietario, “Mi chiamo Francesco, e vengo da vicino Assisi…” Nonostante il cibo cotto e ricotto, mangiamo tutti abbondantemente, e Alex, invece di tornare al suo albergo in città viene a dormire con noi all’ostello, tra papaie, mucche, e praterie odorose di sole e di terra. Al buio, mentre tutti nell’ostello dormono, noi ci sediamo attorno a un tavolo, al suono di parole impossibili da ricordare, nella “tragica” felicità di tante coincidenze che ci hanno portati tutti in quella notte fresca e stellata. Rischio però di pagare subito il conto, lasciando la macchina fotografica sul tavolo rotondo. La mattina dopo, appena accortomi della mancanza, corro ovunque, fin quando un negrone dalla faccia poco raccomandabile, tenendo in una mano la scopa e nell’altra la macchina fotografica, mi chiede sorridendo: “Questa è tua?” “Grazie. Grazie.”Le parole allenteranno la morsa dell’emozione solo quando tornerò alle persone, sapendole non più lì, immaginando qualcun altro scoprire quei luoghi oggi. Per evitare l’invidia mi guarderò intorno, e in silenzio cercherò di fermare il tempo attraverso un abbraccio.